Torna al Teatro Nazionale di Lubiana, dopo trent'anni di assenza, il massimo capolavoro di Donizetti. Presentato ora in una nuova, intensa declinazione del regista Frank Van Laecke.
E' l'epitome, ed il trionfo dei temi romantici dell'amore, del tradimento e della morte, la Lucia di Lammermoor di Donizetti. Opera scelta dal Teatro Nazionale di Lubiana dopo quasi trenta anni di assenza, per concludere la sua stagione 2018/19.
Regia affidata al belga Frank Van Laecke, scenografia al francese Philippe Miesch: l'idea di base è quella di un gelido teatro anatomico, sul cui tavolo marmoreo scorgiamo, già all'inizio, la salma di Lucia. Intorno, sugli spalti sovrastanti trova spazio un coro immobile ed impassibile: è composto da figure ammantate di nero e mascherate di bianco, come la Morte ne Il settimo sigillo di Bergman. I costumi di Belinda Radulović ci portano in un severo, monocromatico Ottocento, mentre la scelta d'una scena fissa - penetrata di lato e dall'alto da gelide luci - focalizza l'attenzione sugli interpreti. Leocke punta tutte le sue carte sulla intensità della recitazione, sulla forza espressiva dei personaggi in scena, sulle emozioni che il loro gesti, e persino il loro aspetto, possono suscitare nello spettatore. Enrico è infermo, il volto devastato dalle ferite subite.
La scena delle nozze è sinistra, raggelante, priva d'ogni festosità. Tutti abusano di ansiolitici: Lucia – inondata di sangue - li offre a tutti nella scena della pazzia, Edgardo si uccide inghiottendone una manciata. Un esempio di intensa, vigorosa drammaturgia, che sfocia in una coinvolgente teatralità.
Due cast di equivalente valore
Abbiamo avuto modo di sentire di seguito i due cast, che tra l'altro vedevano numerosi debutti nei rispettivi ruoli. Elvira Hasanagić e Urška Arlič Gololičič – interpreti entrambe adorabili nella eguale perfezione e raffinatezza di canto - scelgono due modi opposti di risolvere la figura di Lucia: la prima infondendole natura eterea, adolescenziale, dai tratti angelicati; la seconda donandole una maturità più consapevole, un carattere più febbrile e più tormentato. Edgardo passa dalle mani di Branko Robinšak a quelle di Aljaž Farasin, ed anche in questo caso emergono due differenti registri interpretativi. Il primo sceglie una linea vocale forbita ed elegante, dai tratti belcantistici, che nel suo carattere solare ben si accompagna al librare etereo della Hasanagić, la Lucia con cui si confronta. Il secondo, al contrario, privilegia una lettura più nevrotica del personaggio, che sfocia in un canto nervoso e concitato, di forte peso drammatico: come a dire, l'ideale completamento della tormentata Lucia della Gololičič.
Agitato e convulso, senza troppa eleganza, è l'Enrico di Ivan Andres Arnšek; preferiamo quello più sobrio, nobile e misurato che - nella recitazione, come nella linea vocale - sa offrirci Jože Vidic. Raimondo trova in Luka Ortar un interprete troppo giovane nell'aspetto, ma con stile, garbo e potenza comunque adeguati; con Saša Čano ne incontriamo uno più maturo ma anche un poco compassato. Ana Dežman è Alisa, Gregor Ravnik e Klemen Kelih si alternano come Normanno, Matej Vovk è un fiacco Arturo.
Più che buona la direzione
Il direttore Jaroslav Kyzlink dimostra buon istinto teatrale, impostando una valida esecuzione musicale, dal fluire espansivo e liricheggiante. Sa concertare come si deve, ottenendo dall'orchestra dello SNG delicati tratti strumentali, e sostenendo molto bene l'impegno dei cantanti, così che possano mettere in luce doti e qualità. Non comprendiamo tuttavia per quale motivo ci abbia privato della scena della torre, con l'infuocato confronto tra Enrico e Edgardo.